Gai-Jin (78 page)

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Authors: James Clavell

Tags: #Fiction, #Action & Adventure

BOOK: Gai-Jin
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Come sta il povero Struan? In Parlamento non mancheranno le interrogazioni sulla “carente protezione dei nostri connazionali”.

La notizia del disastro della Tokaidò raggiungerà Londra tra due settimane, la loro risposta in merito sarà qui tra altri due mesi. Spero che si dichiarino d'accordo per una dura rappresaglia e ci inviino denaro, truppe e navi per metterla in atto. Nel frattempo, se si scatenerà, affrontate la bufera meglio che potete.

Hong Kong è in subbuglio per questa aggressione. La madre di Struan è fuori di sé, la marmaglia dei mercanti cinesi (per quanto ricchi grazie al deprecabile commercio di oppio) è in rivolta e la loro stampa tendenziosa e sensazionalista chiede le vostre dimissioni.

E mai stato diverso, direbbe Disraeli? Buona fortuna, Dio vi protegga, Vs. Stanhope, KCB, Governatore.

 

Sir William si concesse un lungo sorso di brandy, sperando che il suo volto non tradisse l'ansietà.

“Un ottimo liquore, ammiraglio.”

“Sì, è della mia riserva speciale, in vostro onore” disse l'ammiraglio, furioso che Marlowe gliene avesse versato quasi mezzo bicchiere invece di offrirgli quello scadente che teneva per i visitatori.

Stupido zotico, pensò, avrebbe dovuto saperlo, non avrà mai il comando di una flotta.

“E che ne sarà della nostra spedizione a Osaka?”

“Osaka? Oh, mi dispiace, dovremo rimandarla al nostro ritorno.” Mascherò a malapena un sorriso.

“Quando tornerete?” sir William si sentiva sempre più depresso.

“Dipenderà dal vento, impiegheremo sei o sette giorni per arrivare a destinazione, e a Boh Chih Seh due o tre giorni dovrebbero bastare.

Dovrò fermarmi a Shanghai per il rifornimento di carbone, poi tornerò a Yokohama, se nel frattempo non arriveranno nuovi ordini...” L'ammiraglio tracannò il suo brandy e se ne versò un altro.

“Dovrei essere di ritorno tra quattro o cinque settimane.”

Sir William finì il suo liquore, il che lo sollevò dalla nausea.

“Tenente, vorreste essere così gentile? Grazie.”

Marlowe prese educatamente il suo bicchiere e lo riempì di nuovo con la marca della migliore qualità, mascherando l'irritazione di essere stato degradato a lacchè e annoiato a morte da quell'incarico di aiutante di campo.

Desiderava far ritorno alla sua nave e al ponte di comando per dirigere le riparazioni dei danni causati dalla tempesta. Ma finalmente vedrò un'azione di guerra, pensò con piacere, immaginando l'attacco al porto pirata e tutti i cannoni che facevano fuoco a ripetizione.

“Però ammiraglio” stava dicendo sir William, “se non attueremo le nostre minacce perderemo la faccia e il vantaggio che abbiamo, e ci troveremo in grande pericolo.”

“La minaccia è partita da voi, sir William, non da noi. Quanto alla faccia, le attribuite troppo valore, e per quello che riguarda il pericolo immagino vi riferiate al pericolo per l'Insediamento, dannazione, signore, i giapponesi non si permetterebbero di creare nessun disturbo serio. Non vi hanno mai creato problemi reali alla Legazione, e non lo faranno nemmeno a Yokohama.”

“Se la flotta parte saremo senza difesa.”

“Non esattamente, sir William” intervenne il generale irrigidendosi, “a difendervi rimangono forze non trascurabili dell'esercito.”

“Avete ragione” concesse l'ammiraglio “ma sir William non sbaglia sostenendo che è la marina reale a garantire la pace.

Conto di partire con quattro navi da guerra, signore, non con cinque e di lasciare di stanza una fregata. La Pearl. Dovrebbe bastare.” Marlowe non riuscì a trattenersi.

“Perdonatemi, signore” sbottò “la Pearl è ancora in riparazione.”

“Sono molto contento che siate informato sulle condizioni della mia flotta, signor Marlowe, e che teniate le orecchie ben aperte” disse l'ammiraglio, gelido.

“Dato che ovviamente la Pearl non può partecipare alla spedizione, farete bene a tornare subito a bordo per assicurarvi che entro l'alba di domani sia nelle migliori condizioni per affrontare il mare in qualsiasi evenienza, o ne perderete il comando.”

“Sissignore.” Marlowe deglutì, salutò e scappò via.

L'ammiraglio grugnì e si rivolse al generale. “Un buon ufficiale ma non ancora svezzato, proviene da una famiglia di marinai, anche i suoi due fratelli sono ufficiali e suo padre è capitano di bandiera a Plymouth.” Guardò sir William.

“Non vi preoccupate, la fregata entro domani avrà issato l'albero e sarà in buon ordine.

E il migliore dei miei capitani, ma per l'amor di Dio, non riferitegli le mie parole. Vi proteggerà fino al mio ritorno. Se non c'è altro, signori, devo mettermi in mare subito... mi dispiace di non potermi unire a voi per la cena.”

Sir William e il generale vuotarono i loro bicchieri e si alzarono.

“Buona fortuna, ammiraglio Ketterer, che Dio vi consenta di tornare sano e salvo con tutti i vostri uomini” disse sir William con sincerità, e il generale gli fece eco. Poi il suo volto si indurì. “Se non riceverò soddisfazione dalla Bakufu partirò per Osaka come previsto. Con la Pearl, alla testa del mio esercito o senza di esso, per Dio, a Osaka e a Kyòto ci andrò di sicuro.”

“Meglio aspettare il mio ritorno ed essere prudenti” disse l'ammiraglio laconico, “e non giurate su Dio per intraprendere un'azione così discutibile, Dio potrebbe decidere in senso contrario.”

Quella sera, poco prima di mezzanotte, Angélique, Phillip Tyrer e Pallidar, in abito da sera, lasciarono la Legazione francese e si incamminarono lungo High Street diretti verso il palazzo Struan.

“Là” disse lei allegra, “sir William ha davvero uno chef mediocre!”

Risero del cibo tipicamente britannico, ma abbondante e delizioso: un grande roastbeef, vassoi di salsicce di maiale e granchi freschi, trasportati sotto ghiaccio nel frigorifero del postale proveniente da Shanghai come bagaglio diplomatico e quindi non soggetti a ispezioni doganali e a tasse di importazione. Le portate erano state servite con verdure bollite, patate arrosto, sempre importate da Shanghai, e pudding dello Yorkshire, seguite da torte di mele e di frutta secca, il tutto innaffiato da vino chiaretto, Pouilly Fumé, porto e champagne a volontà.

Per venti ospiti.

“Quando madame Lunkchurch ha lanciato un granchio contro suo marito credevo di morire...” cominciò a raccontare lei ridendo ma Tyrer, imbarazzato, la interruppe: “Purtroppo i mercanti e le loro mogli sono spesso rumorosi.

Vi prego di non giudicare tutti i britannici, o le donne britanniche, in base al comportamento tenuto questa sera dai Lunkchurch”.

“Avete ragione.” Pallidar sorrideva, felice di essere stato incluso nella scorta e consapevole che la sua uniforme da sera e il cappello piumato facevano apparire la finanziera grigia, la cravatta larga di seta vecchio stile e il cilindro di Tyrer ancora più funerei.

“Gente tremenda. Senza la vostra presenza la serata sarebbe stata noiosissima, non ho dubbi.”

High Street e le strade laterali erano ancora affollate di mercanti, impiegati e gente varia che stavano rincasando o passeggiavano sulla promenade, con qualche ubriaco sdraiato sotto i lampioni a olio. Gruppi di pescatori giapponesi carichi di remi, reti e lanterne di carta per illuminarsi la via risalivano dalla riva, dove avevano tirato le barche in secca, o scendevano dal villaggio per la pesca notturna.

All'ingresso del palazzo Struan, Angélique si fermò e porse la mano a Pallidar e a Tyrer per il bacio di congedo.

“Grazie e buonanotte, amici cari, per favore non datevi la pena di aspettarmi, mi farò riaccompagnare alla Legazione da un domestico.”

“Non pensatelo nemmeno” le rispose subito Pallidar, prendendole la mano e trattenendola per un istante.

“Io... noi aspetteremo volentieri” la rassicurò Tyrer.

“Potrei fermarmi un'ora come pochi minuti, dipende da come trovo il mio fidanzato.” Ma poiché loro insistevano lei li ringraziò per la cortese sollecitudine, poi sfilò con il suo vestito ondeggiante trascinando il lungo scialle, passò davanti alla guardia armata in livrea che faceva il turno di notte e, ancora eccitata dalla festa e dalla dovizia di attenzioni ricevute, salì le scale di corsa.

“Ciao, tesoro, sono venuta solo per augurarti la buonanotte.”

Struan indossava un'elegante veste da camera di seta rossa, sotto portava una camicia larga con foulard al collo, pantaloni e stivali morbidi.

Grazie all'elisir che Ah Tok gli aveva dato mezz'ora prima, il dolore si era calmato e poté alzarsi dalla sedia per andarle incontro.

“Mi sento bene come non accadeva da giorni, tesoro mio. Un pò vacillante ma molto meglio. Come sei carina.”

Alla luce della lampada a olio, il viso smagrito di lui era più bello del solito e lei più desiderabile che mai.

Malcolm le posò le mani sulle spalle per sostenersi. Sentiva la testa e il corpo stranamente leggeri, la pelle di lei liscia e tiepida. Il suo sguardo tenero incontrò occhi che danzavano di gioia e la baciò dapprima con dolcezza, poi sempre più appassionato, inebriato dal sapore della sua bocca e dal calore della sua disponibilità.

“Ti amo” mormorò tra i baci.

“Ti amo” rispose Angélique convinta, sciogliendosi nel piacere di sentirlo vigoroso, le labbra forti ed esigenti, le mani forti ed esigenti, e tuttavia rispettose dei limiti mentre lei, all'improvviso, di quei limiti desiderava liberarsi.

“Je t'aime, chèri... je t'aime...”

Per un istante rimasero abbracciati poi, con una forza che non sapeva di avere, lui la sollevò e ritrovò il suo posto sulla grande sedia dall'alto schienale tenendola sulle ginocchia, le labbra posate sulle sue, un braccio intorno alla sua vita sottile, una mano sul suo seno, mentre la seta dell'abito sembrava esaltare il tepore del contatto.

Malcolm era incantato: quanto di lei di giorno era coperto e proibito, ora, nella notte, era dischiuso e gli offriva la sua gioventù. Si sentiva eccitato ed euforico come non mai, e tuttavia controllato e niente affatto travolto dal desiderio, come generalmente gli accadeva quando lei gli era vicino.

“Strano” mormorò. Non poi così strano, pensò, questa medicina attenua anche il dolore del desiderio. Ma non il resto, non il mio amore per lei.

“Chéri?”

“E' strano, ti voglio moltissimo, eppure posso aspettare. Non a lungo, ma posso aspettare.”

“Ti prego, non a lungo.” Le labbra di Angélique lo cercarono ancora e nella sua mente c'era solo lui, tutte le preoccupazioni e i motivi di ansia sembravano respinti nella memoria, e l'accesso alla memoria sigillato dal calore del presente.

Per entrambi. L'incanto fu interrotto dal rumore improvviso di un colpo di pistola.

Angélique balzò a sedere sulle ginocchia di Malcolm e senza riflettere corse alla finestra semiaperta.

Pallidar e Tyrer erano ancora di sotto... dannazione, mi ero dimenticata di loro, pensò. I due uomini, che prima guardavano verso il palazzo, si voltarono di scatto verso la Città Ubriaca.

Sporgendosi dalla finestra intravide lontano nel buio un indistinto gruppo di persone e ne udì le urla confuse portate dal vento.

“Non è nulla, è solo la Città Ubriaca...” disse, perchè le armi e le risse, persino i duelli, non erano rari in quella zona di Yokohama.

Poi, sentendosi strana, infreddolita ma anche imbarazzata, tornò da lui e lo guardò.

Con un sospiro si inginocchiò, gli prese la mano, se la premette sulla guancia e gli posò la testa sulle ginocchia, ma la sua tenerezza e la dolcezza delle sue dita che le accarezzavano i capelli e la nuca ora non tenevano più a bada i demoni che la insidiavano. “E meglio che vada, amore.”

“Sì.” Le dita di lui continuavano ad accarezzarla.

“Vorrei tanto rimanere.”

“Lo so.” Struan si trovò a osservare i propri movimenti come se fossero di un altro: come un perfetto gentiluomo, sereno e distaccato, la aiutava ad alzarsi, attendeva discreto che lei si sistemasse corpetto e capelli e si avvolgesse lo scialle intorno alle braccia, poi la accompagnava, mano nella mano, lungo il corridoio fino all'inizio delle scale, si lasciava convincere a non proseguire oltre e invitava un inserviente ad accompagnarla da basso.

Quando la vide voltarsi sulla soglia e agitare la mano in segno di amorevole congedo, rispose al suo saluto. Se ne era andata.

Non gli costò alcuno sforzo tornare in camera, spogliarsi e lasciare che la cameriera gli togliesse gli stivali. Si infilò a letto senza bisogno di aiuto e si sdraiò in pace con se stesso e con il mondo. La testa non doleva, il corpo non doleva, era rilassato.

“Come sta mio figlio?” sussurrò Ah Tok dal vano della porta.

“E' nel Paese dei Papaveri.”

“Molto bene. Là non c'è dolore per mio figlio.”

La cameriera spense la lampada con un soffio e lo lasciò solo.

 

In fondo a High Street, la sentinella francese, dall'uniforme trascurata quanto i suoi modi, le aprì la porta della Legazione. “Bonsoir, mademoiselle.”

“Bonsoir, monsieur. Buonanotte, Phillip, buonanotte, Settry.” Richiuse la porta e vi si appoggiò un attimo per riprendersi. Il divertimento della serata era svanito e ora sentiva la testa invasa da un nugolo di spettri che si agitavano richiamando la sua attenzione. Mentre attraversava pensierosa l'ingresso diretta nelle sue stanze, notò che dalla porta di Seratard filtrava una luce.

Le balenò l'idea che potesse essere un'occasione perfetta per chiedergli un prestito, si fermò, bussò ed entrò.

“Oh! André! Scusatemi, pensavo di trovare monsieur Henri.”

“E ancora da sir William. Io devo solo finire di scrivere questo dispaccio per lui.” André era seduto davanti alla scrivania di Seratard in mezzo a una grande confusione di fogli.

Il messaggio riguardava la Struan, il loro probabile accordo con i choshu e il probabile aiuto che una probabile moglie francese avrebbe potuto assicurare alla nascente industria bellica francese. “Vi siete divertita? Come sta il vostro fidanzato?”

“Molto meglio, grazie. La cena è stata fantastica, per chi ama i cibi pesanti. Ah, poter essere a Parigi, vero?”

“Sì.” Dio mio, come vorrei portarmela a letto, pensò lui, e dovette ricordarsi della vile malattia infettiva che lo stava consumando a poco a poco.

“Che vi prende?” chiese Angélique, colpita dall'improvviso pallore del suo volto.

“Niente.” Lui si schiarì la gola sforzandosi di reprimere il panico.

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