Virus (23 page)

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Authors: Sarah Langan

BOOK: Virus
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Risultò che il reparto era pieno zeppo. C'era Bram, e c'era anche Sheila. Anzi, almeno quaranta dei suoi pazienti abituali erano sdraiati in barella. Tutti i letti erano occupati, e nel reparto di terapia intensiva erano rimasti solo posti in piedi. Fenstad aggrottò la fronte, poi provò un vago nervosismo: era solo settembre, la stagione dell'influenza non era ancora nemmeno cominciata!

I pazienti tossivano in ogni angolo. Si ripulivano le bocche sudicie con la prima cosa che trovavano: asciugamani e fazzoletti; teli di carta dalla sala visite; persino le maniche delle camicie. Un cordone d'ansia gli strinse lo stomaco serpeggiando fino ai visceri come una biscia. Cos'era, un'epidemia? Qualche sostanza tossica dalla scuola o dalla biblioteca si era recentemente sprigionata nell'aria? Un'arma biologica? Maddie e Meg erano state esposte?

Tirò fuori un paio di lettighe da un ripostiglio e ci fece sdraiare i ragazzi in attesa di un medico. Il loro aspetto non lo convinceva per niente. Avevano le pupille dilatate. Stavano ancora sogghignando, ma era pronto a scommettere che nel loro sangue non arrivasse nemmeno il settanta per cento dell'ossigeno di cui avevano bisogno. E allora, cosa cazzo avevano da ridere?

Si guardò intorno nell'ospedale, e si sentì sopraffatto dallo sgomento. Fiutava dovunque il medesimo sentore di zolfo che aveva avvertito nell'alito di Alice, e questo significava che probabilmente il virus si trasmetteva attraverso le vie aeree.

Si rivolse a Lila. «Avverto tuo marito.»

La osservò sforzarsi di tenere sotto controllo le emozioni, ma il tremito delle mani e lo sguardo sfocato la tradivano. «No» disse. Aveva gli angoli della bocca incrostati di un residuo biancastro. Era ubriaca di Robitussin. Probabilmente quella mattina se n'era scolato un flacone intero, non sapendo che fare quando si era resa conto che i suoi figli erano gravemente malati. E poi si era inventata una storia. Si era detta che fosse giusto non portarli in ospedale, perché in realtà non erano più i suoi figli.

Fenstad la costrinse a sedere premendole le mani sulle spalle. «Faccia un respiro profondo». Lei cercò di inspirare, senza riuscirci. Scoppiò a piangere.

Girò la testa per nascondere la faccia, e riprese a tirare la garza sul polso. «Lei non capisce» replicò.

«Lila. Ha preso la decisione giusta portandoli qui. Sono malati. Forse ha ragione. L'infezione potrebbe aver prodotto una temporanea alterazione della personalità. Ma il fatto è che anche lei sta male. Mi dispiace, ma per questa notte dovrà restare qui.»

Lei piangeva così convulsamente che non riusciva a parlare. «Io... lo sapevo» singhiozzò.

«Che cosa?»

Lei si asciugò il naso con il dorso della mano, sforzandosi di riprendere fiato. «L'ho sempre saputo... fin da principio... lei... è come tutti gli altri.» Passò dalle lacrime a uno sguardo pieno di riprovazione. «Anche lei pensa che sono troppo stupida per allevare dei figli... Sembra che si preoccupi per me, ma in realtà fa finta, proprio come Aran senior. I miei bambini sono cambiati, e l'unica cosa che le viene in mente è che io sono una cattiva madre. E invece la colpa è stata sua, è lui a essere stato un cattivo padre. Li ha fatti a pezzi e poi ha lasciato a me il compito di incollare i cocci. Crede che sia facile tenere Alice lontana dal cibo? Se nascondo il pane e il burro lei si mangia lo zucchero a manciate. Ieri sera hanno divorato tutta la carne che c'era in casa. Cruda! E quando ho cercato di levargliela di mano, Aran junior mi ha strappato la benda! Ha cercato di leccarmi il sangue, per Dio! E nonostante questo, io cerco di fare del mio meglio. Ma sono quelli come lei... siete voi a impedirmelo.» Aveva la voce bassa adesso, nemmeno lontanamente stridula.

Fenstad la fissò a lungo. Aveva le pupille dilatate dall'alcol. C'era un'unica cosa da fare, ma questo non la rendeva più facile.

Individuò un inserviente e gli lasciò le sue istruzioni: in nessuna circostanza bisognava permettere che i bambini lasciassero l'ospedale, fino a quando non fossero stati visitati da un medico e il padre non fosse venuto a prenderli. Poi firmò per Lila un ricovero psichiatrico coatto.

Uscendo dal pronto soccorso non si fermò a parlare né con Lila né con i suoi figli, ma mentre camminava Lila cominciò a urlare. La sua voce superò il frastuono della sala, e all'improvviso tutti tacquero. «Sapevo che lo avresti fatto. Sei sempre stato così freddo. Così fottutamente FREDDO!»

Lui si sforzò di non pensare a Lila mentre tornava nel suo studio. Pensò invece al cane nero del suo sogno, a Enrique Vargas e ad Albert Sanguine. Pensò a Graham Nero e a sua moglie, sudati e nudi nella stanza 69. Poi si guardò le scarpe, solo per accertarsi che la moquette non fosse zuppa di sangue.

 

16.

Ti odio!

 

Venerdì mattina, la caviglia di Meg prudeva. Il giorno prima lei e suo marito avevano fatto l'amore sul divano. Eccitati e frenetici come due adolescenti. Strano come a volte bastasse quello a rendere tutto un po' più facile. Le aveva ricordato come lo vedeva all'inizio del loro matrimonio, quando sembrava non esistesse problema che lui non fosse in grado di risolvere, nessuna domanda per la quale il brillante Fenstad Wintrob non avesse una risposta. L'aveva sempre sconcertata che avesse scelto di specializzarsi in psichiatria, perché era l'unico uomo che avesse mai incontrato che non passasse tutto il tempo a parlarsi addosso. D'altra parte, per quanto taciturno, gli ingranaggi della sua mente erano sempre in movimento. Non si era mai inserito a scuola, né nell'ambiente dei medici. Aiutare gli altri a risolvere i loro problemi lo aveva trasformato da emarginato a confidente universale.

Meg sedeva al tavolo della colazione, e sua figlia era nel pieno di una crisi isterica. «TU NON MI STAI MAI A SENTIRE...» sbraitò Maddie mentre smembrava uno spicchio di pompelmo. Il succo le brillava sulle dita. Meg guardò fuori dalla finestra. Il sole splendeva e il prato era verde, ma qualcosa non andava. Non riusciva a identificarlo con chiarezza; a prima vista sembrava tutto perfetto, come un'illustrazione di Norman Rockwell, e tuttavia... C'era qualcosa di
storto.

«Albert Sanguine avrebbe dovuto suonartele più forte!» strillò Maddie, e Meg tornò a concentrarsi sulla ragazza che le stava di fronte.

«
Che cosa hai detto?
»
domandò.

Maddie abbassò lo sguardo sul piatto. Deglutì. La chioma viola le pendeva sugli occhi come un sipario. «Niente» bofonchiò.

Meg chiuse gli occhi, e attese che sua figlia chiedesse scusa. I secondi passavano. Era stata aggredita tre giorni prima, aveva la caviglia rotta e la casa era uno sfacelo perché lei non era in grado di muoversi abbastanza per riuscire a pulire, e nessuno nella sua famiglia aveva il buon senso di riordinare almeno le proprie cose. Forse era per questo che si stava mordendo il labbro per impedirsi di piangere, ma più probabilmente erano state le parole di Maddie a ferirla (
dove che ho sbagliato?
).

Si guardò intorno in cucina, sperando che Fenstad le desse manforte, ma da qualche minuto non lo si sentiva più armeggiare con la caffettiera. Anzi, Meg ricordava vagamente il rumore di un'auto che si allontanava sul vialetto. Fu sopraffatta dalla collera. Era sgattaiolato via senza nemmeno salutare! Come sempre si prendeva la parte dello sbirro buono, lasciando a lei quella del carceriere. Era sempre lui il genitore preferito di Maddie. Persino il giorno prima, aveva dato a intendere di non volerla contestare sul castigo solo per evitare un litigio.

Continuarono a guardarsi. Meg attese il solenne:
Mi dispiace, mamma. Non avrei dovuto dirti che sono contenta che un pazzo furioso ti abbia gonfiata di botte
,
che non arrivò.

Maddie si scostò la ciocca viola dalla faccia, e le due donne rimasero a fissarsi come in una gara di resistenza.
Oh, ragazzina
,
pensò Meg.
Mi conosci da diciott'anni, e ancora non sai con chi hai a che fare.

«Tu vuoi bene solo a David. Non vuoi bene a me e al papà» disse Maddie, solo che questa volta pronunciò le parole con chiarezza.

A Meg si colmarono gli occhi di lacrime, ma non permise a Maddie di notarlo. Pensò all'uccellino che le era morto tra le mani. Si era sentita sciocca all'idea di seppellirlo, così l'aveva gettato nell'immondizia sopra un mucchio di fondi di caffè. Ora se ne pentiva. Avrebbe dovuto scavargli una fossa dietro il garage insieme al resto degli animali di famiglia.

E dov'era Fenstad in un momento come quello? Assente, come al solito. Al lavoro, e se non era al lavoro restava con la mente altrove. E allora perché non adesso? Perché aspettare che questa stronzetta andasse al college? Gli avrebbe consegnato i documenti del divorzio senza preavviso. L'immagine dello shock sul suo volto -
Un fulmine a del sereno! Per una volta il brillante Fenstad Wintrob colto alla sprovvista!
- la rinfrancò, e riuscì a soffocare le lacrime. Poi si chiese:
Perché penso sempre cose così terribili?

«Non osare dirmi che non ti voglio bene, Maddie» disse quando fu certa di riuscire a parlare con calma.

Gli occhi verdi di Maddie erano freddi, e il suo volto magro si era contratto in una composizione di spigoli. La rabbia l'aveva resa brutta. «Vorrei che fossi morta» disse.

Meg agì senza pensare. Le assestò uno schiaffo in pieno volto. Produsse uno schiocco sonoro, come una palla da biliardo andata a colpire le altre bocce.

Maddie perse l'equilibrio, e per una manciata di secondi Meg non riuscì a capire se le avesse fatto male davvero. Ma poi l'impronta della sua mano affiorò come un cerchio di bolle in un lago. Quattro dita disegnavano una diagonale dall'orecchio all'angolo della bocca di Maddie. Non aveva pianto né strillato. Probabilmente era troppo sbalordita.

«Se vuoi che ti tratti da adulta, piantala di comportarti come una mocciosa» disse Meg. La sua furia suonò estranea persino a lei stessa. Sapeva che avrebbe dovuto pentirsi, chiedere scusa, ma non adesso.

Maddie fece un respiro profondo che sembrava preannunciare una lunga e intensa crisi di pianto. Meg lanciò uno sguardo alla cucina, sperando ancora, nonostante l'evidenza, di trovarci Fenstad. Forse era solo uscito per una commissione, e nel frattempo era rincasato. Forse per una volta poteva mettere fine a tutto questo. Ma in cucina non lo vide. Vide invece l'orologio: le nove e dieci. Maddie era in ritardo per la scuola, e alla prima ora aveva il compito di algebra. «Sali in macchina. Ti accompagno» disse.

 

Lungo la strada rimasero in silenzio. Maddie tratteneva le lacrime, il che non era da lei: probabilmente erano proprio sincere. Il livido si arrossava a vista d'occhio. Lei si tastava la faccia con esagerata delicatezza, come fosse di porcellana.
Magnifico
,
pensò Meg.
Adesso mi toccherà anche la telefonata dello psicologo della scuola che mi accusa di violenza sui minori.

Buttava male. Lei e Maddie si erano inoltrate in un territorio nuovo e grottesco di crudeltà reciproca. Avrebbe voluto tornare indietro. Fare in modo che non fosse accaduto. Ma ormai era fatta.

«Maddie...» disse, ma non sapeva come proseguire. Forse era meglio arrendersi, e permetterle di vedere Enrique? Era per questo che avevano litigato, no? O forse era partito tutto dalla cintura da pagliaccio? Non riusciva a ricordare.

La radio era sintonizzata sul notiziario mattutino della Npr, e lo speaker annunciò che i caduti americani in Iraq avevano ufficialmente superato i quattromila. Lei sospirò. Tutti quei ragazzi. Non riusciva nemmeno a immaginare cosa avrebbe fatto se David fosse stato uno di loro. Che cosa tremenda, perdere qualcuno che amavi. Seduta accanto a lei, Maddie tirava su col naso. Poi se lo asciugò sul dorso della mano. Guardava fuori dal finestrino la giornata perfetta, senza una nuvola.

Meg fu folgorata da un lampo d'illuminazione. Come aveva potuto non pensarci prima? Accostò la macchina al ciglio della strada e si voltò verso sua figlia. «Maddie» disse. «Il ragazzo ha la testa sulle spalle. Non gli succederà niente.»

Maddie fece un singhiozzo convulso e appoggiò il naso al finestrino. Fuori, splendeva un sole glorioso. Sui prati, l'erba appena tagliata era verde. «Come fai a esserne tanto sicura?» sussurrò. Di profilo, Meg la vide impallidire, tanto che l'impronta della sua mano si fece ancora più evidente. La costrinse ad affrontare ciò che aveva cercato di scacciare dalla mente: aveva picchiato la sua bambina.

Le capitava spesso di desiderare un giorno, un mese, un anno in più da passare con Maddie e David, perché era vero che crescevano troppo in fretta. Per quanto ci si sforzasse di prestare attenzione, c'erano cose che ti sfuggivano, o che non eri stato abbastanza intelligente da notare. Amava Maddie, David, e persino Fenstad al punto da non volerci pensare, per non spaventarsi. Avrebbe fatto qualunque cosa per loro, e non perché erano carne della sua carne. Se anche Maddie non fosse stata sua, se fosse stata un'estranea capitata per caso in Micmac Street con i suoi reggicalze di pizzo e i suoi capelli viola, era convinta che ne sarebbe rimasta incantata. Sorrise e pensò: questa è una ragazza in gamba. E allora cosa le spingeva a farsi a pezzi a vicenda in quel modo?

«Non gli accadrà niente» disse Meg. «La maggior parte se la cava. Gli sarà utile. Potrà pagarsi il college.»

Maddie si scostò i capelli sul lato del volto e Meg le intravide sulla guancia il segno del proprio anello di fidanzamento. Il diamante aveva lacerato la pelle, e Meg dovette mordersi un labbro per non piangere a sua volta: l'aveva fatta sanguinare.

«Ero disposta a scappare di casa con lui, ma non credo che lui lo vorrebbe» disse Maddie. La bruttezza contratta era svanita senza lasciare traccia. «Lo amo più di quanto lui ami me» aggiunse, e Meg capì che non era David il suo preferito. Solo la sua bambina aveva il coraggio di dire cose del genere.

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